Non so esattamente perché due anni fa, abbia sentito l’urgenza di fotografare oggetti trovati, cose che erano state abbandonate o dimenticate o lasciate andare, ma so che nell’atto di fotografare questi oggetti, luoghi, esseri, un tempo animati, immaginavo la loro storia: quella prima di quell’istante e quella che avrebbero avuto dopo: un’altra vita, fatta di ricordi intimi e collettivi, di immagini, profumi, melanconie, sapori.
Ero affascinata dall’idea di qualcosa che non c’è più – per come abitualmente ne percepiamo l’esistenza – e che si trasforma in qualcos’altro. Le “cose che sono state” assumevano ai miei occhi un valore universale e collettivo. Ogni foto scatenava una memoria personale e nello stesso tempo collettiva.
I gettoni telefonici ad esempio, mi ricordavano mio padre che mi mandava a giocare le schedine del totocalcio al bar sotto casa dove mi davano il resto – appunto – in gettoni. Il “gettone” che aveva una sua storia finiva quindi per diventare il filo di un ricordo diverso per ognuno e in parte uguale per tutti.
Come mai una bambola era finita sulla spiaggia? Chi ce l’aveva portata? Chi ci giocava? E le nostre bambole che fine hanno fatto? Il ritrovamento diventa anche memoria e ricerca. Il disco rotto buttato per terra che storia porta con sé? Come mai un disco finisce in terra? Chissà cosa provava chi lo ascoltava, e cosa proviamo noi, che a casa ne avevamo tantissimi, incontrandolo in questo altro tempo, in quest’altra storia.
Cose che sono state sì, ma in realtà non solo. Sono state usate da qualcuno, toccate da qualcuno, osservate volare mentre erano uccelli, abitate mentre erano luoghi. E cose che sono di nuovo, che tornano nella loro individuale universalità attraverso i nostri occhi, le nostre domande, le nostre curiosità, piccole o grandi che siano.